In Giappone, come sappiamo, in particolare negli ultimi anni si registra un forte crollo delle nascite. Nel 2050 si prevede che il 40% della popolazione supererà il 65 anni d’età. Se da un lato la popolazione giapponese sta registrando un grande crollo, tra le tendenze per il futuro c’è un dato demografico in costante crescita: l’aumento delle coppie miste. Secondo le ultime statistiche fornite dal Ministero della Salute, del Lavoro e del Welfare, un bambino su 50 tra i nati nel 2013 avevano almeno un genitore non-giapponese. Inoltre, il 4,5% dei matrimoni celebrati nello stesso anno sono stati tra un/una giapponese e una/uno straniero. Per guardare questi numeri in prospettiva, è interessante paragonarli con i dati del 1987, anno in cui fu fatto il primo censimento che includeva anche le coppie miste: solo uno ogni 150 bambini nati aveva genitori di diverse nazionalità e solo il 2.1% dei matrimoni sono avvenuti tra un giapponese e un non-giapponese. In uno dei paesi più culturalmente e geneticamente omogenei, si è veramente pronti ad accogliere questo grande cambiamento?
“Eurasian, half-Japanese, bi-racial, mixed race, hafu, hapa, double, hybrid, dual culture” sono alcuni dei tanti termini usati per definire i bambini nati dall’unione di un/una giapponese con un partner di un’altra nazionalità. A causa dell’omogeneità culturale e genetica che caratterizza questo stato, spesso risulta difficilmente comprensibile per molti giapponesi capire perché questo “marchio” risulti offensivo. Il problema non è la parola in sé, ma il significato che assume: diventa un’etichetta impossibile da togliere che identifica un soggetto nella sua interezza, portando immediatamente in secondo piano tutti gli altri aspetti della sua personalità e del suo carattere. Che cosa significa quindi essere giapponese? Una persona deve sembrare giapponese, parlare giapponese e comportarsi secondo tutti i costumi e le tradizioni giapponesi.
Ma le persone sono molto di più della somma delle loro caratteristiche fisiche e, a lungo termine, per chi è nato, cresciuto ed è sempre vissuto nel paese-arcipelago e sente di appartenere completamente a questa cultura, subire costantemente queste distinzioni è estremamente frustrante. Nella vita quotidiana, ci sono tante “micro aggressioni psicologiche” da affrontare, che possono danneggiare l’identità di un individuo fino a fargli perdere il contatto con le sue radici. Anche nel caso in cui vengano apprezzati per le loro caratteristiche fisiche (generalmente hanno gambe più lunghe, occhi più grandi ecc), si rischia di cadere nella trappola della discriminazione; l’altra faccia del problema è infatti una sorta di feticismo per gli hāfu, derivato dalla presenza alcuni “esemplari” rappresentativi in programmi tv e magazine femminili, talvolta a sfondo erotico, che fa di loro una sorta di oggetto esotico di tendenza.
Anche dal punto di vista legale esistono regole speciali per i figli nati da coppie miste: se da un lato i bambini possono godere dei benefici della doppia cittadinanza dalla loro nascita, dall’altro non gli è permesso conservarla per sempre, poiché sono costretti a fare una scelta dopo il compimento del ventiduesimo anno d’età. Questa decisione viene imposta per prevenire situazioni di incertezza in caso di futuri conflitti del Giappone con altre nazioni e per timore della dubbia fedeltà e dello scarso attaccamento ai valori e alle tradizioni che queste persone potrebbero dimostrare nel corso degli anni.
In Giappone vige la regola dello “ius sanguinis” e non dello “ius solis”: ciò significa che la cittadinanza è basata sul sangue, non sul luogo di nascita. Con l’aumentare di questo tipo di nascite, il governo ha visto come necessaria una legge, entrata in vigore nel 1984, che preservasse la sovranità, l’identità e la coesione della nazione. Ai ragazzi con doppia nazionalità viene richiesto di cominciare a riflettere sulla loro scelta già a 20 anni, l’età in cui si raggiunge la maggiore età e in cui si dovrebbe essere in grado di compiere una scelta così importante e definitiva in maniera informata. Se questa scelta non avviene spontaneamente e chiaramente, come conseguenza viene revocato il passaporto giapponese.
Perché una persona nata e cresciuta in Giappone può essere considerata non-giapponese? Ci sono molti progressi da fare sulla presa di coscienza delle persone che vivono nel proprio paese: lo stesso sistema scolastico, che non è mai cambiato negli ultimi 30 anni, dovrebbe modificarsi e svilupparsi rivolgendo maggiormente lo sguardo alla globalizzazione, permettendo agli studenti che vivono con alle spalle più di un background culturale, di integrarsi al meglio, considerandoli per quello che sono – un valore aggiunto per il Giappone – e non degli “outsider”. A mio parere, esiste una via di mezzo tra l’omologazione locale e l’omologazione globale, riassumibile con “unità nella diversità”. Un percorso certamente lungo, ma importante per aiutare coloro che vengono quotidianamente definiti “half”, a sentirsi “whole” nella loro società.
Ilenia A.