Per molti anni lo si è considerato un fenomeno prettamente giapponese, forse anche a causa di manga e anime dove possiamo trovare personaggi che decidono di ritirarsi dal mondo esterno per rimanere chiusi nella propria stanza, dedicandosi alle loro passioni (ossessioni) legate alla tecnologia e alla cultura pop nipponiche.
Eppure gli adolescenti che in Italia tagliano i rapporti con la vita sociale per mesi, anni e a volte per tutta la vita ci sono e sono anche tanti.
Le stime parlano di 20/30 mila casi, numeri molto più limitati rispetto alla realtà giapponese dove si raggiunge anche il milione, ma comunque significativi di un disagio diffuso, spesso confuso con la depressione, che interessa una fascia di ragazzi sempre più giovane (anche dal primo anno di scuola media inferiore). Ma quali sono le sue origini?
I primi casi si registrano proprio in Giappone sul finire degli anni ‘80, quando il Paese stava cavalcando l’onda dello sviluppo e del benessere precedente lo scoppio della bolla speculativa degli anni ‘90.
E in effetti i più colpiti sono proprio i figli unici e maschi delle famiglie della classe medio-alta, di un’età compresa tra i 19 e i 30 anni, anche se gli hikikomori di seconda generazione, quelli dei primi anni 2000 per intenderci, cominciano a manifestare il proprio malessere già attorno ai 13 anni.
Il governo giapponese utilizza questo termine in riferimento a soggetti che si rifiutano di abbandonare la propria abitazione per almeno 6 mesi ma è chiaro come anche periodi più brevi di isolamento siano segnali d’allarme che dovrebbero far alzare il livello di guardia tra i familiari e la cerchia di amici e conoscenti.
Come vive un hikikomori?
La sua giornata risulta completamente rovesciata rispetto a quella di una persona che viene considerata socialmente normale, poiché le attività dell’hikikomori si concentrano durante la notte. In particolare, si svolgono sul web con videogiochi, chat, anime e così via. Appare paradossale, tra l’altro, come il soggetto eviti volutamente il contatto diretto con le persone reali mentre impieghi tanto tempo ed energia nel crearsi una fitta rete virtuale di contatti con cui condividere i propri interessi e spesso anche il proprio rigetto per tutto ciò che si trova al di fuori della sua stanza.
Stanza che viene abbandonata soltanto per brevissimi periodi, ad esempio una volta a settimana, per recarsi al konbini (convenience store aperti 24 ore su 24) più vicino e fare scorta di cibi precotti. Nei casi più estremi, il giovane chiede che i pasti gli vengano lasciati fuori dalla porta dai familiari, in modo da non dover mai fisicamente uscire da quello che considera l’unico luogo per lui sicuro. Se la reclusione avviene in modo graduale e prevede la perdita di amicizie e l’abbandono della scuola, si fa mano a mano sempre più estrema tanto che il ragazzo finisce spesso per perdere le competenze sociali e comunicative necessarie per il comune rapportarsi con gli altri.
Tra le cause di questo disagio, tanto difficile da comprendere quanto da trattare, gli studiosi hanno visto la rigidità e la competitività del sistema scolastico giapponese per cui gli studenti sono spinti a eccellere per ambire a entrare nelle università più prestigiose e di conseguenza anche nelle più importanti compagnie del Paese. Un brutto voto viene allora visto come un fallimento personale non solo dagli studenti ma anche e soprattutto dalle loro famiglie, che così tanto investono nella loro istruzione e nel loro futuro. Invece di un luogo in cui trovare rifugio, la famiglia diventa motivo di nuove ansie, anche a causa di una figura paterna praticamente assente e di una materna invece eccessivamente presente. Il primo è, infatti, solitamente impegnato tutto il giorno sul luogo di lavoro, e una volta a casa tende a imporsi come modello di integrità e dedizione senza creare un vero e proprio legame affettivo con i figli. Al contrario, tra la madre, casalinga, e i figli tende a instaurarsi una sorta di simbiosi che impedirebbe uno sviluppo autonomo e il passaggio definitivo all’età adulta.
Entrambi i genitori, poi, al presentarsi del disturbo nei propri figli, si mostrano esitanti nel richiedere aiuto, sia per salvaguardare la propria immagine, sia perchè viene sottovalutato e considerato solo come una fase transitoria.
Tornando all’Italia, il fenomeno risulta più recente, con i primi casi diagnosticati nel 2007, e pur presentando la stessa sintomatologia, si differenzia dal precursore giapponese per le motivazioni che spingono i nostri ragazzini delle scuole medie a voler recidere ogni legame con il mondo esterno. Come spiega, infatti, lo psicoterapeuta Piotti,” Il problema a scuola non riguarda né le materie, né lo studio, né gli insegnanti, ma la socialità complessiva, l’incontro con membri dell’altro sesso e, quindi, il rischio del rifiuto, e la competizione, non sempre vincente e felice, con quelli del proprio”. Piuttosto che la concorrenza in termini prettamente scolastici, come in Giappone, gli hikikomori italiani sembrano essere preoccupati più dal contorno, da quello cioè che succede con i propri coetanei tra una lezione e un compito in classe.
Tra le varie vie proposte per tentare di arginare quella che anche in Italia potrebbe diventare una problematica sociale complessa e radicata, oltre a comunità in cui i ragazzi sono rieducati alla socializzazione, alcuni psicologi tentano di usare a proprio favore il rifugio preferito degli hikikomori, la rete, ovvero provando a stabilire un legame con loro proprio dove si sentono più “a casa” grazie all’ausilio delle chat o di Skype.
Chiara Bronzini