L’azienda Kitaya si trova, invece, nel comune di Yame, sempre all’interno della provincia di Fukuoka ed è in attività dal 1830. Fin dall’epoca Edo l’azienda, ora alla settima generazione della famiglia, produce esclusivamente sake e il nome stesso dell’azienda 喜多屋 suggerisce il perché: vogliono dare “molta 多gioia喜attraverso il sake`”. Fin dalle origini, infatti, la produzione è rimasta fedele alla ricetta originale, con un sake` dal gusto compatto che porta alla mente la tradizione giapponese attraverso i sapori.
La fabbrica è stata costruita 190 anni fa ed è subito chiaro il lavoro dell’azienda perché, appena varcato l’ingresso dello stabilimento, ci si trova davanti una sugidama, una grande sfera composta di rami e foglie di quattro alberi di cedro giapponese che sancisce l’inizio della fermentazione del sake`. Poi, una volta entrati, sarà l’odore penetrante dell’alcol ad accompagnare la scoperta del metodo di creazione del prodotto.
L’ingrediente principale del sake è il riso (una specie adatta per il sake` ma diversa dal riso consumato quotidianamente) e infatti grande attenzione viene prestata al chicco: l’azienda utilizza diverse qualità di riso per la produzione, come Omachi雄町 e Ginn no sato吟のさと, ma per i sake` più raffinati utilizza un tipo di riso di alta qualità chiamato Yamada Nishiki山田錦, proveniente da Itoshima (Fukuoka).
Prima di tutto il riso viene lavorato perché diventi il più raffinato possibile, perdendo la parte esterna e mantenendo solo la parte bianca centrale, chiamato Shin-paku (心白, cuore bianca, tradotto letteralmente), composta solamente da carboidrati e quindi “cuore” del sapore. La brillatura è il primo processo e in quanto tale identifica la natura del sake` che si va a produrre, infatti più il riso è raffinato, più il prodotto finale sarà costoso. La purezza dei chicchi di riso stabilisce anche la grandezza delle macchine che li lavoreranno: infatti, i più raffinati sono fatti cuocere e fermentare in tini più piccoli. La tipologia di sake` più costosa è il Daiginjo, e i chicchi di riso vengono brillati fino a far rimanere solo il 35% dell’originale, mentre il resto viene scartato.
Il passo successivo è lavare i chicchi raffinati e cuocerli al vapore. Come è noto, il riso non contiene naturalmente zuccheri, quindi l’unico modo per farlo diventare dolce dopo la cottura è farlo fermentare attraverso l’ausilio di lieviti. Il riso cotto viene portato in una stanza di 30°C chiamata muro, in cui viene coperto in modo che il lievito madre fuoriesca. La stanza è molto secca, in quanto il lievito ha bisogno di spazio per crescere e ci fosse umidità non riuscirebbe a farlo uniformemente. Questo processo dura circa 50 ore e il tipo di lievito prodotto si chiama koji, che convertendo l’amido in glucosio è responsabile del sapore dolce del sake. Il koji麹, però, non basta a rendere il riso sufficientemente fermentato, quindi una volta passate le 50 ore il riso viene portato in grandi tini e coperto di kobo 酵母, un altro lievito che permette ulteriore fermentazione. Questi tini funzionano come dei thermos giganti, non facendo disperdere il calore del riso, anzi, facendola aumentare mano a mano che procede la fermentazione. Il riso rimane qui dentro per circa 30 giorni: la fermentazione varia in bare alla raffinatezza iniziale dei chicchi e a una purezza inferiore corrispondono tempi più lunghi di fermentazione e di conseguenza prezzi più bassi.
A questo punto della preparazione è già possibile sentire il profumo del sake`, forte e dolce allo stesso tempo, ma con un retrogusto fruttato di mela e banana. Da ognuno di questi grandi thermos è possibile ricavare 1500 bottiglie da 750 ml di prodotto.
Gli operai addetti a quest’operazione riescono a capire cosa c’è bisogno di fare affinché il prodotto sia buono anche dal profumo della fermentazione: infatti, tutti i giorni effettuano controlli e, come da loro stessi affermato, “dialogano con il riso”. È proprio questa cura per i particolari e l’amore per il prodotto che hanno permesso all’azienda di vincere diversi premi nel campo della produzione del sake`, tra cui il IWC Champion Sake` nella categoria sake giapponese, durante l’International Wine Challenge del 2013.
Al termine del periodo di fermentazione, il riso viene messo dentro a dei grandi sacchi di stoffa che hanno lo scopo di far uscire il liquido dal riso e filtrarlo. Ciò che si ottiene da questo processo è il sake`, pronto per essere imbottigliato, senza ulteriori stadi di filtrazione. È curioso il fatto che non viene applicata nessuna pressione al riso perché faccia fuoriuscire i liquidi che trattiene, ma si aspetta semplicemente che defluisca e si separi da solo dai sedimenti, pratica che rende la tecnica dell’azienda tradizionale. Inoltre, il riso che inizialmente era più raffinato non necessita neanche di filtrazione ed è quindi possibile imbottigliarlo direttamente alla fine della fermentazione.
Uno dei responsabili della fermentazione ci racconta che in epoca Edo, per sopperire alla mancanza di orologi, gli artigiani durante la lavorazione del riso scandivano il passare del tempo attraverso le canzoni.
È certamente il forte attaccamento alla tradizione la caratteristica principale dell’azienda.
Il pensiero dell’azienda Kitaya è che il sake` deve essere la diretta espressione della cultura giapponese, che tende a creare prodotti seguendo idee precise e tradizionali, e quindi deve mantenersi classico, evitando di essere rovinato da influenze esterne. Le novità rischierebbero di rovinare una ricetta del sake` già perfetta e “la creatività – dice il responsabile della fermentazione Nishio Takahiro – romperebbe lo stampo”, ovvero contaminerebbe la tecnica acquisita nei secoli.
Procedendo all’assaggio dei diversi sake è chiara la differenza di sapore tra quello nato dal riso più raffinato e quello meno raffinato, ma risulta difficile distinguere le diverse gradazioni di purezza. Il sapore più forte appartiene sicuramente al sake` meno raffinato, che ha un aroma non particolarmente fruttato, al contrario del Daiginjo. Quest’ultimo in bocca risulta molto delicato, ma allo stesso tempo offre un sapore ben definito e strutturato con un retrogusto ricco e fruttato. Inutile dire che l’atto di assaporare inizia con il meraviglioso aroma, in cui sembra quasi di poter riconoscere il duro lavoro dei produttori.
Al termine della giornata dedicata alle visite al territorio e alle aziende, che seguiva a sua volta gli impegni istituzionali del giorno precedente che hanno formalmente dato il via alla due giorni di Fukuoka, il momento finale delle sessioni di lavoro tra produttori giapponesi e delegazione italiana e` stata l’occasione che ha fatto emergere non solamente gli innumerevoli punti di contatto tra le due culture, ma e` stata anche l’occasione per scoprire da vicino altre realta` locali giapponesi, sconosciute ai piu’, espressione di quel forte clima di trasformazione e di rielaborazione che sta vivendo la tradizione produttiva giapponese, in concomitanza col bisogno delle aziende di farsi notare all’estero e rendersi piu’ al passo con i bisogni e le curiosita` dei mercati internazionali.
Kitaya http://www.kitaya.co.jp/
a cura di Claudia Catalano
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