Ad oggi la pena di morte è abolita in più della metà dei Paesi del mondo. Stando ai dati forniti da Amnesty International (2017), sono in totale 141 i Paesi abolizionisti (de iure e de facto), mentre è di 57 il numero di quelli che mantengono in vigore la pena capitale. L’Asia è il continente dove l’istituto è maggiormente applicato e il Giappone non fa eccezione: il 13 luglio scorso ha eseguito le prime due esecuzioni capitali del 2017.
L’argomento cardine della scelta abolizionista tra le democrazie è da ricercarsi nell’interpretazione del diritto alla vita come assoluto, inviolabile, indisponibile ed inalienabile. Tra i motivi figurano anche il riconoscimento alle pene inflitte di una funzione riabilitativa del reo, e non solo punitiva. Ancora, è condivisa la convinzione che lo Stato debba ripudiare qualsiasi forma di tortura e trattament affine.
Inoltre, stante la irreversibilità della pena capitale, è volontà comune ai Paesi abolizionisti quella di evitare qualsiasi rischio di condannare a morte un innocente, non potendosi escludere con certezza la possibilità di un errore giudiziario.
La scelta abolizionista è riconosciuta nell’Occidente europeo come parte integrante di un sistema che tuteli la dignità umana e i diritti umani. Tuttavia, a livello internazionale il dilemma tra conservazione e abolizione è ben lontano dall’essere stato risolto e l’argomento divide il mondo.
E se a qualcuno, in Occidente, potrà sembrare “assurdo che le leggi che detestano […] e puniscono l’omicidio, ne commettono uno esse medesime” (Cesare Beccaria nel “Dei delitti e delle pene”), abbiamo chiesto a qualche giapponese cosa ne pensi della pena capitale.
Stando alle risposte ricevute, l’opinione pubblica non pare aver avviato un vero e proprio dibattito sull’argomento. La pena capitale è ritenuta quasi sempre legittima. Solo un giovane avvocato, tra le persone consultate, ha dichiarato di non essere favorevole. In generale, non si rinvengono tendenze abolizionistiche diffuse né una coscienza collettiva riguardo l’abolizione della stessa nel mondo occidentale.
Gli interlocutori sembrano stupiti alla domanda: “perché sei favorevole alla pena di morte?”, e nella maggior parte dei casi la risposta data consiste nell’osservare come l’esecuzione capitale in Giappone sia prevista per i soli reati più gravi, quale il plurimo omicidio.
Alcuni affermati professionisti del settore legale hanno spiegato che l’applicazione è tesa a neutralizzare la pericolosità del reo e la sua tendenza delinquenziale poiché, macchiatosi di reati di particolare gravità, non ha alcuna realistica prospettiva di reinserimento sociale. Anzi, al contrario, vi è l’elevato pericolo che commetta nuovamente lo stesso crimine.
C’è anche chi ha osservato come la pena di morte e la democrazia siano compatibili, asserendo che i rappresentati dei cittadini in Giappone (quale sistema di governo a sovranità popolare espresso tramite una monarchia parlamentare) hanno legittimamente optato per il mantenimento della pena capitale, nell’esercizio del dominio che ogni Stato ha sul sistema penale. Nessuna incoerenza con la democrazia, dunque, perché la pena di morte non ha nulla a che vedere con le forme di governo.
Le argomentazioni a favore della pena capitale tra i “non addetti ai lavori”, vantano meno tecnicismi ma non sono meno pregnanti delle precedenti. Una giovane universitaria di Fukuoka sostiene: “Se un mio amico venisse ucciso, credo sia equo che muoia anche l’autore di questo orribile delitto. Non potrei mai accettare l’idea che il mio amico sia morto e l’assassino vivo, seppure in carcere. Sono convinta che l’unico modo per ristabilire un equilibrio e dare un senso di giustizia alle famiglie che soffrono è prendere la vita di colui che l’ha rubata a qualcun altro”.
E ancora, un ragazzo spiega che sarebbe terrorizzato all’idea che un pluriomicida possa uscire di prigione, mentre una giovane donna crede che la pena capitale possa donare sollievo alle famiglie delle vittime.
C’è anche chi ha mostrato un fervido interesse per l’argomento, tanto da condividere oltre le ragioni a sostegno del mantenimento dell’istituto, informazioni precise sul come la stessa venga eseguita.
“Quando penso alla pena di morte non riesco a fare a meno di chiedermi come si sentano coloro che, materialmente, la eseguono. Qui le persone sono condannate a morire per impiccagione. Il posto dove la pena viene eseguita non è tanto lontano da casa mia.”
Perché viene tenuto segreto il giorno dell’esecuzione?, la risposta è che non è sempre stato così.
“Il condannato a morte, in passato, veniva informato con anticipo. Il numero di suicidi però era alto, così si è deciso di annunciare l’imminente esecuzione solo la mattina del giorno prescelto.
Chi è nel braccio della morte, a questo punto, avrà la possibilità di scrivere un testamento, dare disposizioni riguardo i propri effetti personali, anche ricevere dei dolci o delle sigarette, se lo desidera. E, se richiesto, verrà chiamato un monaco, buddista, shintoista o cristiano, che accompagni con una preghiera gli ultimi istanti della sua vita.”
Esiste un sito sulla pena di morte, aperto per volere di Keiko Chiba (ex Prima Ministra giapponese e sostenitrice dell’abolizionismo), da cui si apprende esistere un rituale di morte ben preciso.
Al condannato sono fatti indossare dei vestiti bianchi, mentre il capo viene coperto con un cappuccio bianco. Le mani sono ammanettate mentre gambe e collo legati con due funi.
I centri di detenzione hanno una stanza dedicata alle esecuzioni. Al centro della stessa, normalmente, si trova una botola rettangolare, perimetrata da due linee rosse. Su un lato della sala si apre una vetrata, oltre la quale la famiglia delle vittime può assistere all’esecuzione. Per antica tradizione, nessuna pena capitale è eseguita di Domenica o durante i giorni festivi, né durante le vacanze di fine e inizio anno.
Nella stanza accanto, separata da una pesante tenda di velluto blu, tre agenti penitenziari stanno in piedi davanti a tre bottoni: solo uno dei tre manderà l’impulso necessario ad aprire il portello che produrrà il dislivello mortale. Nessuno sa quale dei tre di preciso, cosicché il non avere la certezza di aver provocato una morte possa ridurre l’impatto psicologico sugli agenti penitenziari coinvolti.
“Questi poliziotti, di solito, percepiscono una somma di denaro in più per l’esecuzione>>, aggiunge la nostra traduttrice, <<non tanto eh!, e ad ogni modo quei soldi vengono portati al tempio affinché un monaco possa purificarli."
Nel sito è scritto che dopo che il bottone è premuto – e la terra pesante si dissolverà sotto i piedi del condannato – questi è lasciato appeso alla corda per circa 20 minuti. Un medico accerterà l’avvenuto decesso, che normalmente avviene in 5 minuti dall’invio dell’impulso, ed il corpo senza vita è riposto in una bara di colore bianco.
Solo allora la notizia della esecuzione è comunicata ai familiari del condannato e data ai giornali tramite conferenza stampa del Ministro della Giustizia (colui o colei che hanno ordinato materialmente l’esecuzione).
L’ultima conversazione si è conclusa così, con ognuno dei presenti improvvisamente immerso nella realtà di un condannato nel braccio della morte. C’è silenzio. Gli animi sembrano immersi nell’angoscia, come se, lontani da ogni appartenenza culturale, sia rimasta soltanto la straziante immagine di un uomo che va a morire. Un assassino, come sentenza ha accertato. Eppure ancora, e comunque, un uomo. La cui uccisione è stata sancita dallo Stato.
A cura di Sara Porru