Dentro un tribunale giapponese

L’Alta Corte di Fukuoka è situata a breve distanza da uno degli ingressi del principale parco della città, Ohori-koen, ad una fermata di metropolitana dalla stazione di Hakata.
Ai lati della struttura si intravedono parte delle mura del castello cittadino, mentre un laghetto antistante riposa nel fossato che perimetrava il castello, ospitando enormi piante lacustri e fiori di loto.
Il ponte d’accesso all’area dello stabile è sospeso sull’acqua. Qualche uccello acquatico procede lento da una sponda all’altra, mentre il via vai di persone ed auto è poco intenso. Nell’ampio edificio una bandiera del Sol Levante sventola alta e, se non fosse per il grigio dei muri esterni, agli occhi di un italiano sembrerebbe più una struttura sanitaria che un Tribunale.

Ciò che, invece, ricorda l’Italia sono i controlli di sicurezza all’ingresso. Non sono altrettanto familiari per i giapponesi. Infatti, in soli altri due Tribunali – Osaka e Tokyo – è necessario sostare ai controlli in assenza di un badge. A Fukuoka le misure di sicurezza sono una recente novità, introdotta per via della forte presenza sul territorio della yakuza, la mafia giapponese che gestisce il traffico di armi, droga e prostituzione. Dallo scorso anno, il Procuratore distrettuale di Fukuoka ha avviato delle estese campagne di repressione della malavita organizzata, cui sono conseguite forti tensioni e rappresaglie. Da qui è derivata la necessità di incrementare i controlli nella sede dell’amministrazione della giustizia.

Una volta all’interno, l’ambiente non è poi così diverso da quello descritto in “After dark”, uno dei lavori di Haruki Murakami, scrittore giapponese di fama mondiale. Anche il Tribunale di Fukuoka, infatti, potrebbe essere paragonato ad un cinema multisala. Come nel romanzo, si trova subito un pannello che contiene ogni informazione sulle udienze: oggetto della causa, aula, orario, proprio come un cartellone dei film in programma.
Per partecipare alle udienze civili, normalmente tenute a porte chiuse, è necessario ottenere un permesso. Alcune di esse in Giappone possono tenersi anche telefonicamente. Le udienze penali, invece, sono pubbliche e chiunque può decidere di parteciparvi.

Sotto l’arcata della scala che conduce al piano superiore, in un ambiente ritirato, si trovano due file di poltrone. Davanti ad una televisore muto che trasmette programmi di animazione, i clienti aspettano i propri difensori, in un silenzio composto.
Ed invero, tutto intorno è immerso nella quiete. La calca all’ingresso, il vociare scomposto, il trambusto delle aule dei Tribunali italici sembra il ricordo di una dimensione aliena. I corridoi che si snodano dall’atrio emanano la calma di un sanatorio di montagna. E le persone, forse nel rispetto degli animi turbati (se si considera che i giapponesi sono dei convinti pacifisti), utilizzano un tono di voce sufficiente appena a farsi sentire dall’interlocutore.

Ai lati dei corridoi si rincorrono, in fila, decine di porte chiuse. Conducono alle aule delle udienze, spesso con un accesso diretto, altre volte passando per un piccolo atrio intermedio.
Gli avvocati arrivano sempre con largo anticipo in aula, sanno che le udienze iniziano puntuali e possono durare anche pochi minuti.
La presenza dei procuratori è verificata dagli impiegati di cancelleria (uno o due generalmente), mpeccabilmente vestiti anche sotto la toga nera. Distribuiscono documenti quando necessario e, finiti gli adempimenti siedono alla scrivania lignea, centrale rispetto alle scrivanie laterali degli avvocati.

Dentro l’aula è vietato chiacchierare. La stanza, anche questa immersa in un silenzio profondo, è divisa da un piccolo steccato in legno che separa le sedie del pubblico dal luogo in cui si svolgerà l’udienza. L’ingresso dell’organo giudicante avviene da una porta diversa rispetto a quella usata dall’utenza, ed è accolto con riverenza: ci si alza in piedi e si fa un inchino. La scrivania del giudice è posta anteriormente rispetto a quella dei cancellieri, ma la sovrasta dall’alto. Da qui il magistrato si rivolge agli avvocati difensori e quasi mai alle parti che, spesso, non sono presenti (udienze civili).
Se il contatto avviene, la parte dovrà sedersi in un banchetto sito al centro della stanza, perfettamente allineato con la postazione del giudice. Perché, infatti, anche quando è l’avvocato (o il pm) a porre le domande, lo sguardo della parte deve stare sul giudice: voltare il capo è un gesto di scortesia. E se lo si fa è meglio avere un buon motivo, perché all’interno dell’aula non è tollerata l’alterazione di alcun rituale.

Un esempio? Un uomo anziano risponde alle domande poste dal suo difensore, voltandosi verso di lui. Questi lo invita a rivolgersi nuovamente al giudice ed anche quando avrà appreso che l’uomo ha dei problemi d’udito, sembrerà mal soffrire quella posizione del capo.

Nel processo penale, invece, è costume che l’imputato – se dichiarato colpevole – chieda scusa per il reato commesso. A tal fine, porgerà l’inchino più profondo di cui è capace. Il gesto, se convincente nel suggerire un reale pentimento, potrà valergli una risposta sanzionatoria più mite.

Ancora, viene seguito un preciso ordine nell’accordare la parola all’imputato. Lo stesso, seduto in una panca davanti alla scrivania del suo difensore, ha due agenti ai lati. Al cenno del giudice tutti e tre si alzano in piedi disponendosi in fila. Una delle due guardie controlla che tutto proceda correttamente, l’altra scioglie il nodo della corda legata intorno alla vita di lui, poi apre le manette e ripone il tutto dentro un sacchetto di stoffa. Una volta libero verrà accompagnato al banchetto centrale per interloquire col giudice.
L’udienza alla quale abbiamo assistito è stata un po’ particolare, poiché accanto al giudice sedevano i membri della giuria popolare, sistema che in Giappone è stato introdotto nel recente 2009.
L’imputato è stato accusato di stupro ai danni di sei donne diverse, all’epoca dei fatti tutte residenti nella medesima struttura ed ora sedute anch’esse in aula in attesa di conoscere il verdetto. Quattro donne e due uomini del popolo, nonché tre giudici togati hanno comunicato la pena decisa. L’uomo sconterà venticinque anni nella prigione locale. In piedi davanti alla giuria, senza muovere un solo muscolo, ha ascoltato ogni dettaglio della ricostruzione dei fatti, iniziati col furto della biancheria intima (reato piuttosto comune in Giappone), e poi evolutosi nelle violenze di cui è stato ritenuto colpevole.
A lettura conclusa tutti i presenti sembravano sollevati, in particolare le famiglie delle vittime visibilmente commosse davanti all’impassibile volto dell’aguzzino, che pareva ancor più paonazzo sotto il casco di capelli corvini.
Una avvocata si è allontanata dall’aula con gli occhi arrossati e gonfi. “È stato disgustoso”, ha commentato “non posso credere che sia successo nella mia città, è entrato nel cuore della notte nelle stanze delle vittime, le ha soffocate con un cuscino ed ha fatto loro le cose più orribili. La prima vittima da quella violenza ha avuto anche un bambino e solo dopo tanto dolore è riuscita a trovare il coraggio di denunciare quanto accaduto”.

La giornata al Tribunale di Fukuoka è finita così.
I giudici si sono congedati con un gesto del capo svelto, al quale i presenti hanno risposto alzandosi in piedi, porgendo un inchino e lasciando compostamente lo stabile immerso nella sua consueta quiete.

Contributo a cura di Sara Porru